Botany Manor: In bloom

Botany Manor è un puzzle carino, basato sul raccogliere indizi per “risolvere” e far sbocciare i diversi fiori presenti nel gioco; Fiori -purtroppo- tutti o quasi di fantasia, una delle varie concessioni ad un game design un po’ pigro e derivativo che anzichè sforzarsi di riportare e rendere divertente ciò che madre natura ha già creato, preferisce piegare la realtà a proprio comodo e proporre vegetali sensibili a colori, musica e quant’altro, per poter così comodamente proporre al giocatore enigmi piuttosto standard.

Nello stesso modo Botany Manor sfrutta biecamente alcune storture di design per complicare ed allungare un po’ il brodo: Il libro che raccoglie automaticamente gli indizi trovati non è informativo, quindi riporterà soltanto il nome di cosa abbiamo trovato e il luogo, mentre per il contenuto dovremo andare a memoria, tornare più volte a rileggerne il testo o più prosaicamente sfruttare la fotocamera del nostro smartphone (quello reale, intendo..). Pari pigrizia denota l’impossibilità di anticipare una soluzione a un enigma: queste infatti restano bloccate finchè non si trovano tutte le voci relative a quel determinato fiore e non si assegnano allo stesso, il che riporta ancora una volta la ricerca degli indizi -anche se inutili- al centro del gameplay.

Impossibile poi non citare l’aspetto grafico, marchianamente derivativo e afflitto da pop-in e compenetrazioni assolutamente non inficianti l’esperienza ma ben poco eleganti in un gioco così limitato nell’estensione e nella complessità degli ambienti e nell’interazione con gli stessi. Ciliegina sulla torta, una certa tendenza a dare ai più sensibili un cincichino di motion sickness, problema di cui si erano evidentemente accorti anche gli autori, tanto da citarlo esplicitamente nelle opzioni relative al campo visivo.

Sembrerebbe un gioco da bocciare senza appello, ma in realtà di Botany Manor si salvano l’atmosfera rilassata e bucolica grazie alla generale pulizia grafica e alle musiche piacevoli, una sottotrama sulla discriminazione di genere non particolarmente sorprendente ma comunque ben inserita e non stucchevole, e la buona costruzione generale del tutto, dalla struttura della casa con progressive scorciatoie agli enigmi basati su elementi per lo più vicini, il che rende l’inopportuno e abulico backtracking comunque tollerabile.

Bontà strutturale che si evidenzia anche nella calibrazione della lunghezza del gioco, che termina subito prima che i suoi difetti diventino affossanti permettendo a Botany Manor di lasciare comunque, alla fine, un discreto ricordo.

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Starfield, 160 ore dopo: l’importanza del viaggio e la paura di fallire.

Nonostante hype e annunci promettessero rivoluzioni e la prima killer application da un paio di generazioni a questa parte, io da Starfield volevo l’assuefazione tipica dei RPG Bethesda, quelli in cui perdersi per 3-4 mesi.

Il counter per ora si è fermato a 160 ore in 4 mesi in attesa della prima espansione, quindi ammetto candidamente di aver avuto ciò che volevo; Ciò non toglie che tutta l’esperienza sia stata indubitabilmente accompagnata da una strisciante sensazione di possibilità mancata.

La prima cosa che colpisce di Starfield sono le dimensioni.

E non parlo del numero assoluto di sistemi e pianeti presenti, generati più o meno proceduralmente: Starfield è mastodontico per quantità di scrittura, di assets creati, di oggetti gestiti dalla fisica, di posti visitabili, di PNG. E’ semplicemente enorme: Ci sono 5 cantieri visitabili e 14 aziende minori produttrici di parti di astronavi; Ognuna presenta uno stile costruttivo ed estetico peculiare, un logo, del marketing sparso nel gioco, e il tutto si va ad inserire in un editor di costruzione e modifica delle navi che consente -con i dovuti limiti strutturali- di costruire ciò che si vuole.

Ci sono 4 classi di armi da fuoco (rifles, shotguns, heavy weapons e pistols) divise a loro volta in 4 sotto-tipologie in base ai proiettili (ballistic, laser, particle, EM, energy), oltre a 9 armi da corpo a corpo e 11 tipi di granate, 8 produttori ognuno col suo stile che ha caratteristiche estetiche differenti e in alcuni casi estremamente caratterizzanti, e ancora una volta la maggior parte delle armi è modificabile.

Rispetto ai precedenti giochi Bethesda anche il quantitativo di quest -al netto delle radiant- è pazzesco, ti piovono letteralmente addosso: Spesso una voce sentita mentre sei a passeggio può portare una quest lunga un paio d’ore; Peraltro la qualità della scrittura mi è sembrata mediamente migliore di quanto visto finora da Bethesda.

Il problema non sono quindi la quantità o la qualità di quanto proposto, si tratta di qualcosa di più strutturale. Quello che è carente è la coesione: Il cambio di ambientazione ha portato ad una frammentazione che risulta lesiva per l’immersione.

In TES e Fallout inizialmente sei costretto all’esplorazione, allo scontro, alla fuga, sei introdotto all’ambientazione e alla lore, e il senso di scoperta diventa fondamentale per innescare l’immersione nel gioco, una componente che poi andando avanti e livellando lascerà progressivamente posto al fast travel mentre la parte ruolistica passa a sua volta in secondo piano in favore del grinding e della smania di accumulo anch’essi tipici dell’addiction da giochi Bethesda.

In Starfield, a causa della struttura divisa in sistemi e pianeti e della decisione (di natura tecnica o meno) di non far compiere al giocatore viaggi alla No Man’s Sky, la prima parte si perde quasi completamente: Dopo un intro atto ad approcciare le dinamiche di base a terra e non particolarmente coinvolgente, ci si scontra con l’inevitabile delusione del constatare che non solo non è possibile viaggiare fisicamente da un pianeta all’altro, ma non è neanche possibile raggiungere il corpo celeste che stiamo inquadrando con la nostra astronave se non passando attraverso i menù; Accettato questo enorme limite, si inizia a saltellare tra un sistema e l’altro, entrando troppo precocemente in un mood che porta a correre verso le quest ignorando ciò che ci circonda, perdendosi il gran lavoro di scrittura e creatività di cui parlavamo sopra. Un vero peccato.

Francamente penso che la scrittura di Starfield sia eccezionale, ma che sia stata usata in un modo e in un mondo eccessivamente frazionati che le rendono poco giustizia; Ad esempio, la lore di Neon è eccezionale: una città nata su un pianeta completamente acquatico, un’idea apparentemente assurda ma narrativamente coerente in quanto i pesci pescati lì sono fonte della droga più assuefacente dell’universo e questo ha portato allo sviluppo di una sorta di Night City, con lo sfarzo della superficie sta a coprire ben due sottolivelli di povertà e sfruttamento, con aziende/corporazioni differenti ad ogni livello, negozi, magazzini. E il tutto viene alimentato dai fulmini che cadono di continuo sul tempestoso pianeta, per raccogliere i quali esistono delle griglie visitabili e la cui tecnologia servirà poi in un’altra questline.

Purtroppo Akila City, Neon, Nuova Atlantide sono e restano tutte entità separate e anche quando una quest ti manda qui e là, non si ha mai l’impressione di compiere un unico viaggio all’interno di una galassia organica.

Ma continuiamo ad infierire: Anche stavolta quello che fa il giocatore non influisce sul mondo.

Howard & co. sono rimasti fermamente ed dichiaratamente legati all’idea voler permettere al giocatore di ottenere tutto in una sola run, ma alla luce dell’evoluzione dei videogiochi post-Skyrim oggi si tratta di qualcosa di fortemente anacronistico. E il paradosso è che Starfield sarebbe stato il gioco perfetto per introdurre questo cambiamento epocale per Bethesda: Il ng+ per come è strutturato avrebbe infatti permesso di integrare quanto non fatto nella prima run all’interno della stessa partita, concedendo la possibilità di mantenere una coerenza narrativa perfetta e nel contempo rendere le scelte del giocatore dirimenti per il mondo di gioco.

Lo sviluppo del personaggio l’ho trovato interessante anche se da migliorare: alcune abilità sono interessanti e hanno risvolti inattesi, alcuni perk sono essenziali e lo scopri solo sbattendoci il muso (ad es. alcuni di quelli dell’astronave) mentre altri sembrano abbastanza superflui (tipo quelli fisici) ma comunque bloccano rispetto ad alcune abilità avanzate ben più desiderabili (nel mio caso l’occultamento: dopo aver portato la furtività al massimo dovrei spendere ben ulteriori 8 punti sulle specializzazioni fisiche per poter prendere occultamento).

Dal punto di vista tecnico, al netto del motore che ha limiti e virtù di cui già si è parlato abbondantemente, ho trovato volti, ambienti e illuminazione soddisfacenti, mentre dal lato gameplay la svolta definitiva verso l’FPS è stata meno dolorosa di quanto temessi, anche se rende lo sviluppo del personaggio meno articolato ed interessante: Si finisce sempre a fare un PG in grado di sparare dalla lunga e media distanza, con qualche grado di furtività e di boostpack, le altre specializzazioni sono tutte extra non essenziali nè in grado di rivoluzionare il gameplay.

Starfield è un gran bel gioco -le mie 160 ore stanno lì a dimostrarlo- ma ha un duplice peccato originale percepibile lungo tutta l’esperienza: Doveva essere l’occasione per innovare un sistema diventato vetusto e portarne avanti le caratteristiche di immersività e assuefazione. Purtroppo la congiuntura del mercato l’ha costretto a dover essere un successo, e la paura di fallire l’ha ridotto ad una nuova iterazione di ciò che avrebbe dovuto rivoluzionare, e nel contempo a perdere parte di quel senso di scoperta con cui i suoi predecessori ti irretivano.

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Cocoon: Matrioske, insetti e meccanismi.

Cocoon mi è piaciuto, ma forse meno di quanto sperassi, mi aspettassi dai video e di quanto non abbia estasiato la stampa specializzata.

L’aspetto tecnico è estremamente curato ed affascinante: uno stilizzato ed inquietante mondo entomo-bio-tecnologico che unisce le inquietudini morbose di Scorn al fascino asettico di Tron e che, pur senza nessun tipo di contesto o interazione possibile al di fuori di quelle strettamente previste dal gameplay, rappresenta comunque il motivo principale per cui si continua a procedere nel gioco.

Gioco che dalle premesse poneva nella ricorsività dei suoi mondi-matrioska fulcro e attrattiva ma che, a conti fatti, si realizza in una versione via via più complessa delle torri di Hanoi in cui è più il tempo che si passa a spostare le sfere fra i vari supporti che non a cercare di far interagire il dentro ed il fuori delle sfere.

Intendiamoci: La meccanica di fondo è certosina per precisione ed in qualche caso anche sorprendente, ma la progressione degli enigmi, pur perfetta nel ritmo e nel gradiente di difficoltà, non arriva mai a scatenare la travolgente ondata di dopamina di The Witness o The Talos Principle.

Il massimo a cui aspirare giocando Cocoon è un composto “Ahh ecco..“: Un po’ più soddisfacente del ritrovare le chiavi di casa perdute, ma anche molto meno delle epifanie scatenate dai capolavori puzzle succitati.

Del viaggio si apprezza la costruzione solida e pulita, che consente di affidarsi al gioco sicuri di non bloccarsi mai per qualche errore di design, così come le occasionali aperture in cui scegliere quale percorso percorrere per primo, sicuri che comunque di lì a poco tutti i fili torneranno ordinatamente affiancati, pronti per essere intessuti nella fase successiva.

Poi ci sono i mini-boss, mechainsettoni bellissimi ognuno da affrontare con una meccanica particolare ma rapidamente intuibile, per scontri che ricordano un po’ Titan Souls pur senza volerne raggiungerne la frustrazione: Veloci intermezzi da ripetere massimo 3-4 volte per non fermare il flow.

E’ tutto pulito, ordinato, giusto, cool. Ma anche un po’ noioso.

L’indubbio amore che Cocoon trasuda sembra essersi prodigato inizialmente nel concepire l’idea di base dei mondi ricorsivi per poi esplodere nell’ideazione e realizzazione del mondo di gioco, plastico e ipnotico nella sua intangibilità, e finire annacquandosi in un gameplay elegante ma manierista, che pur con qualche guizzo interessante alla fin fine non rende giustizia nè all’una nè all’altro.

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La space opera di Mass Effect Legendary Edition

Nel 2008 provai brevemente il primo Mass Effect su Xbox360. Già allora iniziavo a dare segni d’insofferenza verso lo shooting come forma prevalente di gameplay, preferendo avventure o GDR più classici e scontrandomi frontalmente tanto con l’onda generata da Gear of War e Halo 3, quanto con la “nuova via” scelta da Bioware per la sua prima serie inedita.

Una premessa sicuramente non beneaugurante, che infatti mi portò ad abbandonare già al primo scontro con un colosso geth su Eden Prime; Crivellato la prima, la seconda, la terza volta, tolto il disco, saluti e baci.

Eppure mi è sempre rimasta l’impressione di essermi perso qualcosa, tanto che nel tempo approfittai dell’allora fiorente mercato dell’usato per procurarmi anche i due seguiti di ME, ripromettendomi un giorno di riprovare ad affrontarli.

15 anni dopo Bioware, EA e il Gamepass di Microsoft mi hanno portato direttamente in salotto la Mass Effect Legendary Edition e non riprovare a questo punto sarebbe stato uno spreco. Considerando però che il mio astio verso i giochi-di-sparare non è diminuito e che l’antipatia è reciproca, stavolta ho impostato la difficoltà su ‘Facile’ senza troppe remore, e il risultato è stata una galoppata di 2 mesi per quasi 450 ore di gioco, in cui i 3 Mass Effect sono diventati l’appuntamento fisso serale al pari di una serie TV appassionante, compagni del momento del relax serale, rapito da un universo che mai avrei sperato di trovare in un gioco sparacchino e quasi maggiorenne.

Sì perchè quella di Mass Effect è una delle lore più organiche e coerenti che la fantascienza e il videogioco ci abbiano proposto finora; Non se ne ha percezione da subito: Al nostro primo atterraggio sulla Cittadella sembra di avere di fronte una riedizione del bar di Tatooine, con almeno una decina di razze differenti ammucchiate a far bella mostra di sè; Andando avanti però, a quasi ogni razza vengono dati uno spazio e una storia, spesso legata a doppio filo con quella di altre specie a creare un intreccio storico e politico che rende la galassia viva e pulsante.

Una tale cura rivolta al background consente poi a Mass Effect di superare quelli che sono i limiti legati alla struttura stessa del gioco, a partire dai dialoghi con i personaggi principali, con domande da parte nostra appena abbozzate e evidentemente dicotomiche tra buono e cattivo, ma che danno luogo a conversazioni per la maggior parte interessanti e informative tanto sulla lore quanto sui personaggi stessi.

E lo stesso (alto) livello di scrittura è stato rispettato anche nella stesura della trama principale e di molte delle subquest: Il viaggio di Shepard, pur partendo dalla più banale delle premesse -peraltro ripresa in modo quasi pedissequo dal recente Starfield di Bethesda- è un’epopea graziata da alcuni picchi lirici e adornata dai tanti personaggi che intervengono a sfaccettare la loro personalità quanto quella del protagonista, la cui natura di avatar “neutro” -deliberatamente evidente sia nel suo aspetto che nella banalità degli approcci al dialogo- è funzionale a far sì che il nostro protagonista venga plasmato dalle scelte e dalle interazioni fatte durante il gioco.

Dopo un primo episodio bello ma relativamente lineare e smaccatamente introduttivo, sin dall’inizio del secondo episodio la narrazione esplode, storia ed epica s’impennano, mentre sin dal subito si palesano le proporzioni del quadro dipinto da Bioware: Mandandoci in giro fra decine di sistemi stellari e ponendoci contro una razza di creature gargantuesche lo sviluppatore forza il giocatore a percepire il fascino della sproporzione fra il singolo essere umano e l’universo, il che rappresenta lo sfuggevole obiettivo ultimo di tutta la narrativa fantascientifica spaziale da Star Trek in poi.

Un risultato eccellente che, in ultima analisi, permette di soprassedere sui difetti pur presenti (menzione di disonore per le orride missioni con i veicoli) e su una ripetitività di fondo derivante dall’aver scelto in modo un po’ paraculo di salire sul carrozzone modaiolo (all’epoca) dei 3rd person shooter in salsa run, gun & cover, invece di cercare una soluzione alternativa che lasciasse al giocatore la facoltà di plasmare maggiormente il proprio approccio al gioco, come fatto dalla stessa Bioware con il primo Dragon Age o da Bethesda con Fallout.

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Outer Wilds e Echoes of the Eye, il potere della conoscenza

Groundhog Day

Outer Wilds parte dal classico loop alla “Ricomincio da capo” e tramite quel classico trick narrativo riprende, espande ed approfondisce il concetto di crescita del personaggio come crescita esperienziale e gnostica del giocatore, concetto su cui Jonathan Blow ha basato il suo The Witness, applicandolo ad un ambiente stratificato ed estremamente coerente dal punto di vista sia fisico che narrativo in cui nessun particolare è casuale e ogni cosa accade con un motivo ed una tempistica assolutamente precisi.

Ad ogni loop il giocatore impara nuove regole ed avvenimenti del mondo di gioco e li usa per scoprire ulteriori location ed eventi, fino a capire nel dettaglio cosa succede, perchè, quale è il suo ruolo nella vicenda e cosa deve fare.
Quello che si dipana è quindi un percorso di comprensione omogeneo ed esponenziale in cui, una volta superato il piccolo scoglio del primo ciclo (l’impatto con lo stile grafico, l’ambientazione rural-fantascientifica, i tutorial, i dialoghi da leggere e la cripticità delle prime rivelazioni possono infatti risultare un po’ scoraggianti), la successione delle scoperte è sempre più rapida e articolata, consentendo man mano di comprendere e superare la superficie di un’ambientazione strana e di un look cartoonesco, e di vederci attraverso la maestosità e l’organicità di quanto creato da Mobius Digital.

Little Big Planets

La piccola software house (13 persone in totale) ha infatti creato un gioiello assolutamente fuori parametro persino per team ben più grandi, grazie ad un’idea innovativa ma incredibilmente strutturata e ad un’accuratissima progettazione e realizzazione, che si concretizzano in un meccanismo ad orologeria perfettamente cesellato tanto nella sua costruzione quanto nella sua evoluzione lungo i 22 minuti del loop: se ne ha percezione al primo decollo fuori dall’atmosfera di Cuore Legnoso, quando lo sguardo si allarga sul piccolo sistema planetario, sui suoi pianeti, le loro orbite, e quello stesso stupore continuerà a pervadere il giocatore ad ogni successiva epifania, fino alla letterale incredulità che inevitabilmente colpisce giunti alla comprensione ultima della complessità dello schema generale cui il gioco soggiace, nonchè della profondità delle tematiche svelate dagli avvenimenti vissuti.

Tutto in Outer Wilds è coerente, e ogni cosa al suo interno -noi compresi- è sottoposta alle regole che il gioco impone: qualunque cosa si faccia gravità, tempo, orbite, pianeti sono sempre lì, non si ha mai l’impressione che il mondo di gioco sia limitato al campo visivo del giocatore e che scompaia volgendo le spalle.

Consciousness

Una tale accuratezza costruttiva lascia ancora più basiti quando se ne intuisce la diffusione a pressochè tutti gli aspetti del gioco, dai testi perfettamente misurati e mai troppo espliciti o criptici all’evoluzione della componente emotiva del viaggio, che partendo dall’ironia iniziale arriva infine a toccare tematiche come nostalgia e lutto, pur senza abbandonare mai del tutto la sua anima tranquilla e scanzonata.

Questa profondità inattesa è frutto di una scrittura inaspettatamente matura e consapevole, in grado di toccare tante sfumature dell’animo umano contemporaneamente senza rinnegare a nessuna di queste il diritto ad esistere e coesistere, tanto da prevedere -persino in un gioco fondato sull’impiego ragionato del proprio il tempo- che il giocatore possa prendersi un momento per sè stesso, fermandosi a sentire la musica suonata da un compagno astronauta e abbrustolendo un marshmallow, dimenticando per un attimo il destino incombente.

Un particolare “inutile” ai fini del gameplay quanto può esserlo prendersi un momento di relax nella vita reale, e che come tanti altri aspetti lascia intravedere ulteriori livelli di lettura, che poi si esplicitano nel finale del gioco.

42 [Spoiler Alert!]

Quello che il giocatore vive in Outer Wilds, il viaggio nel suo complesso, rappresenta un percorso interiore di comprensione ed accettazione dell’ineluttabilità del destino nostro, dei nostri amici e del nostro universo, la cui fine è semplicemente naturale ed inevitabile. Il giocatore inizia a percepire ad un livello di coscienza sempre più alto l’ineluttabilità della fine, ma anche che la ciclicità supera la fine del nostro universo coincidendo con la nascita di un nuovo cosmo, di altre specie, altra vita, in un loop enormemente più grande di noi, del nostro piccolo sistema solare e di un piccolo videogioco indipendente che si è voluto prendere la briga di provare a spiegarci il senso della vita senza prendersi troppo sul serio.

Addendum: Echoes of the Eye

Echoes of the eye è il dlc uscito a circa due anni dal gioco principale, che per dimensioni e durata potrebbe tranquillamente essere considerato un vero e proprio seguito, non fosse che il suo codice e la sua ambientazione vanno ad incunearsi all’interno del gioco principale in modo talmente ben orchestrato e naturale da sembrare scritti in parallelo a quest’ultimo (e la presenza di alcuni particolari tende a rafforzare questa ipotesi).

EotE abbandona l’ambientazione spaziale in favore di un ambiente chiuso, ancora una volta estremamente ben studiato e di impatto, ma giocoforza con un respiro più limitato e meno variopinto del multiforme sistema solare teporiano. Si perde un po’ la magia del cosmo, che resta relegato sullo sfondo, si perdono il fascino e l’horror vacui della corsa disperata tra i pianeti e si perde anche la pace interiore che in OW pervade il giocatore quando le note della musica finale preannunciano la supernova e la momentanea fine del nostro tribolare avvolti nella luce.

Di converso il gioco guadagna in mistero, atmosfera e tensione, in un passaggio dalla space opera alla ghost story piuttosto fluido pur se un po’ straniante.

Se la struttura di base del game design resta la stessa (esplora->scopri->comprendi->esplora ancora sfruttando quanto capito) , il gameplay cambia fulcro passando dalla complementarietà di gravità e tempo alla contrapposizione tra luce e buio, dando un taglio più classico agli enigmi proposti e volutamente più tetro alla narrazione.

Le iscrizioni Nomai che sbocciavano sui muri lasciano il posto a diapositive meno affascinanti e più dirette che fanno un po’ anni ’80 e che purtroppo nella pratica risultano anche meno maneggevoli: memorizzare immagini risulta più difficile di tenere a mente un concetto o una frase e il diario di bordo che consente di consultarle è accessibile soltanto ad inizio loop, inducendo in breve a scattare screenshots e foto col cellulare per avere sotto mano i codici o le mappe necessarie.

Il tutto risulta in una variazione sul tema assolutamente apprezzabile per qualità e quantità, forse leggermente meno a fuoco dell’originale, ma che rilegge le tematiche del gioco principale modificandone le chiavi strutturale ed emotiva, dando conferma ancora una volta dell’eccezionale perizia con cui un team di sviluppo al suo primo lavoro è riuscito a mantenere un controllo pressochè perfetto sui livelli più profondi della propria opera.

Note a margine

Ho giocato Outer Wilds la prima volta su PS4, faticando moltissimo a controllare la navetta fino al punto di abbandonarlo poco dopo il primo decollo. Ho scoperto in seguito che quella versione è piagata da un fastidiosissimo lag dei comandi fortunatamente del tutto assente su Xbox Series X, dove l’ho poi ricominciato e finito, innamorandomene.

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The Witness, Contact e l’unicità del medium videogioco

Jonathan Blow è un genio. E’ evidentemente un tipo strano, a vederlo e leggerlo nelle interviste sembra supponente ed estremamente pieno di sè; poi vai a vedere i suoi giochi, il livello di studio del design e capisci che non è supponenza, è controllo. D’altra parte è sopravvissuto allo sviluppo solitario del suo primo gioco (Braid) apparentemente senza troppi scossoni mentre lo stesso non si può dire ad esempio di gente super talentuosa ma non altrettanto solida quali il team Meat o di Phil Fish, che nell’interessantissimo documovie “Indie Games: The Movie” mostravano chiaramente di soffrire i livelli di stress disumani a cui sono stati sottoposti. Non solo, ha scientemente reinvestito tutti i suoi soldi nello sviluppo di un gioco con dei presupposti assurdi: un puzzle game in prima persona in un’ambientazione non interattiva, che a differenza di Portal o The Talos Principle non intendeva presentare puzzle ambientali bensì decine e decine di labirinti bidimensionali graficamente tutti simili. Il tutto realizzato in 7 anni da un team di 8-15 persone pagate full time dallo stesso Blow, prevedendo anche lo sviluppo di un motore grafico creato ex novo.

Nel gioco ci sono ben 523 pannelli da risolvere.

A leggere dai primi annunci fino alle ultime anteprime di The Witness, sembrava che Blow si fosse giocato il lobo frontale.

E invece tutto in The Witness sembra perfettamente incasellato e cesellato a comporre un insieme più enormemente più grande e atto a garantire molteplici livelli di lettura, e questo nonostante Blow abbia poi rivelato che all’inizio il progetto il quadro complessivo gli fosse molto meno chiaro di quanto non sembri a posteriori.

A partire proprio dai pannelli, che nella loro estrema versatilità si sono rivelati tanto componente di gamedesign quanto elemento fondante di un metalinguaggio: con The Witness infatti Jonathan Blow utilizza il cuore stesso del videogioco, il gameplay, per condividere un concetto comunicandolo in modo “esperienziale” e quindi estremamente profondo, ad un livello quasi inconscio e comunque altro rispetto alle consuete interfacce di media tradizionali e videogiochi. Certo, anche Super Mario utilizza il gameplay per insegnarci regole progressivamente sempre più complesse, ma è la prima volta che qualcuno utilizza in modo tanto deliberato le caratteristiche e le potenzialità del medium videogioco per divulgare un pensiero.

Come il messaggio degli alieni di Contact, The Witness nei suoi vari livelli di lettura è quindi un abecedario, un manuale, un prontuario ed infine un trattato filosofico: ogni pannello ha una sua soluzione unica, la cui comprensione è necessaria alla risoluzione dei pannelli successivi che aggiungendo ulteriori variabili e ne esploreranno tutte le variazioni possibili prima di passare ad un altro “capitolo”, che cambierà alcune delle regole di base ed espanderà ulteriormente i concetti acquisiti fino a quel momento, fornendo nel contempo un altro pezzo del mosaico finale.

Il tutto con lo scopo ultimo di farci esperire direttamente, e quindi comprendere ad un livello profondo, un concetto tanto lineare quanto difficile da acquisire intimamente: che la conoscenza avvicina a Dio.

Anche gli alieni di Contact (1997) ritenevano che l’esperienza diretta
fosse il modo migliore per ampliare la propria conoscenza dell’universo..

[Spoiler]

Ad un certo punto del gioco ci si rende conto che la tipologia di schema dei pannelli è in realtà presente anche nell’ambiente che ci circonda; si inizia quindi a guardare l’isola in modo differente, riconoscendo con sempre maggiore frequenza schemi, immagini e corrispondenze: rami che diventano volti, statue ai lati opposti dell’isola che viste da specifici punti di vista interagiscono o nella cui ombra appaiono ulteriori particolari, e soprattutto schemi del tutto simili ai pannelli ma stavolta nascosti fra le nuvole, nella vegetazione, tra le ombre.

[Fine Spoiler]

La conoscenza ha cambiato quindi il nostro modo di vedere il mondo, e ci permette ora di riconoscerne gli schemi e di capire la logica che c’è alla base, espressione diretta della volontà del suo creatore.

Una rivelazione tanto più devastante quanto più si comprende che in realtà tutto è sempre stato sotto i nostri occhi sin dai primissimi istanti di gioco, ma semplicemente all’inizio si è troppo legati a schemi noti di apprendimento, gameplay e analisi dell’ambiente per cogliere quanto ci circonda, portandoci inoltre a liquidare come stranezze o curiose coincidenze le statue, le corrispondenze e gli indizi palesi scoperti accidentalmente, ma che senza il giusto percorso incrementano solo i dubbi ed il livello di confusione anzichè rivelare la loro reale natura di epifenomeni.

Un atto eseguito con tale maestria e granitica sicurezza di sè da sembrare il frutto di una verità rivelata, di un progetto ed un obiettivo perfettamente focalizzati, al punto che una volta compreso il messaggio sembrano quasi superflui, se non addirittura fuori luogo, i documenti audio e video che Blow ha comunque inserito e sparso nel gioco per spiegarlo tramite mezzi più canonici.

Si tratta forse dell’unico segno di umana insicurezza rispetto alla propria efficacia comunicativa in un lavoro altrimenti completamente votato alla propria idea e al proprio scopo.

James Burke

Jonathan Blow è un genio: Ha deliberatamente sfruttato l’interattività del videogame come mezzo esperienziale e comunicativo unico per far comprendere un concetto profondo e cercare di ampliare il nostro punto di vista sul mondo e sull’universo.

Non male per essere solo dei giochini.

Approfondimenti:

‘The Witness’ è una lezione di semiotica

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Playing with: Risen

Anche se i GDR Bethesda sono spesso definiti dai neofiti del genere come ‘spiazzanti’ per la libertà che lasciano al giocatore, una volta imparato l’approccio corretto e presa mano con il gioco, diventa evidente tutta una serie di aiuti e trucchetti di game design volti a rendere l’orientamento nel gioco e nel suo mondo molto più facile e alla portata di tutti.

Risen non è così.

La maggior parte dei controlli non viene neanche accennata in-game, costringendo a leggersi il cospicuo manuale (quanto tempo era che non mi succedeva!) o ad andare a tentoni; le quest a volte non vengono illustrate completamente e non esiste una bussola che ci porti direttamente al passo successivo, costringendo il giocatore a vagare alla ricerca di un PNG di cui si conosce solo il nome o a tentare d’interpretare le criptiche indicazioni della pur presente -e tutto sommato efficace- mappa di gioco; e per finire, il combattimento è assolutamente spietato: sin dal primissimo scontro, andare definitivamente al tappeto è facilissimo.

Il fatto è che si tratta di una spigolosità voluta, ricercata dagli sviluppatori e questo s’intuisce da piccoli particolari, come i menu, che NON mettono in pausa il gioco (Demon’s Souls anyone?), o dal fatto che ogni singolo avanzamento in una quest anche articolata assegna punti esperienza, permettendo di abbandonarla in qualunque momento senza troppi rimorsi, o infine dal fatto che la crescita dei punti esperienza non garantisce l’acquisizione di nuove abilità per ispirazione divina, ma bisogna sempre e comunque trovare un maestro in grado di insegnarci come sfruttare l’esperienza guadagnata.

Tutto questo per dire che Risen non è un gioco per tutti, e soprattutto non è un gioco da consigliare a chi non ha mai affrontato un GDR: forse anche guardando ai giochi della concorrenza usciti ed in uscita al tempo (Dragon Age: Origins su tutti), Piranha Bytes ha scelto di dedicare il gioco della sua rinascita -il cui titolo, evidentemente, non è casuale- agli aficionados di Gothic e più in generale a chi non si scoraggia facilmente rispetto al genere di videogames forse più complesso in assoluto.

In questo senso anche il punto di vista sull’aspetto tecnico di Risen si deve modificare pesantemente: pur non facendo gridare al miracolo, Faranga è piuttosto bella a vedersi, e trasmette perfettamente l’idea di un posto pericoloso e selvaggio, ma anche affascinante. Il primo impatto con i PNG poi è spiazzante, specie per chi come me ha appena finito Dragon Age o un qualunque altro titolo a budget ben più alto.

Pur rispettando uno stile ben determinato, i personaggi di Risen non sono bellissimi; le donne in particolare tendono a sembrare delle bambolone non perfettamente proporzionate, e in generale scordatevi i volti iper-espressivi e le movenze realistiche della concorrenza. Come per molti altri aspetti di questo gioco però, non bisogna fermarsi alla prima impressione.

A differenza di molti altri GDR infatti, i tozzi PNG di Risen sono dotati di animazioni peculiari, che gli permettono  di svolgere azioni concrete inerenti la quest in corso: se ad esempio convincete i manovali nella palude a riprendere il loro lavoro di trasporto casse, questo non sarà tacitamente rimandato a quando ve ne andrete, nè il carreggio verrà “lasciato intendere” facendo semplicemente spostare i PNG da un posto all’altro a mani vuote; piuttosto li vedrete approcciarsi alle casse, caricarsele e trasportarle stancamente verso la loro destinazione. Avete mai visto un PNG di Oblivion o Dragon Age fare altrettanto?

Insomma, superando la primissima impressione di un gioco sciatto e inaccessibile, Risen inizia a lasciar trasparire l’amore e l’impegno dei suoi creatori, ed è una sensazione bellissima perchè mi sembra quasi -gioco nel gioco- di aver trovato la chiave di lettura nascosta con cui i Piranha Bytes hanno cercato di nascondere i pregi del loro titolo ai più, lasciando il meglio per chi abbia la voglia ed il coraggio di approcciare realmente la loro opera.

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Digital Delivery e diritti del giocatore: per cosa rinunciare a DVD e Blu-Ray?

Partiamo dalla dichiarazione che Markus Persson (creatore Minecraft) ha rilasciato alla GDC 2011:

La pirateria non è un furto. Se rubi una macchina, l’originale sparisce. Invece, se copi un gioco, ce n’è semplicemente una copia di più al mondo. Non esistono cose come le ‘mancate vendite’. Anche le recensioni negative sono causa di ‘mancate vendite’, allora? E che dire dei ritardi di distribuzione?

Una dichiarazione forte, senza dubbio sopra le righe e che offre il fianco a non pochi appunti, ma che oltre a risollevare un problema storico del videogioco come la pirateria, entra a gamba tesa anche su un altro concetto chiave, quello delle ‘mancate vendite’, andando ad rincarare la dose rispetto a quanto già espresso da Rick White (produttore di Inversion) pochi giorni prima:

[…]Credo che mettere dei blocchi nei giochi per forzare la gente a non comprare l’usato sia controproducente. Preferirei piuttosto fare qualcosa di simile a quello che stiamo facendo con Inversion, dove diamo un multiplayer, co-op ed una storia valida ed avvincente ed un sacco di elementi di gioco interessanti. […]Fate giochi che valgano veramente 60$ e fateli bene. Metteteci amore e passione e la gente vorrà comprarli e tenerseli. Voglio dire, c’è veramente gente che affitta Call of Duty?

L’argomento del contendere sono gli online pass, i codici unici di attivazione introdotti da EA come interpretazione aberrante di quella “teoria dei 10 dollari” con cui John Riccitiello (CEO di EA) prometteva di risolvere il “problema” del videogioco di seconda mano: se l’idea originale era infatti quella d’inserire codici per dlc gratuiti nei giochi nuovi, all’atto pratico purtroppo il tutto si è deformato nella mutilazione o nel blocco del gioco di seconda mano, a meno di non spendere ulteriori 10$ per acquistare un nuovo codice.

Nati come ideale spinta per avviare un circolo virtuoso, i gli online pass sono quindi divenuti un’altro simbolo di quelle vessazioni (tabelle di codici, parole chiave nei manuali, ruote di cartone, plastichine colorate, chiavi elettroniche, SecuROM, SafeDisc, StarForce, attivazioni online obbligatorie, fino ai più recenti DRM) a cui i giocatori veri -quelli paganti– vengono sottoposti in nome di una distorta visione del diritto d’autore che, invece del giusto compenso per un’opera d’ingegno, diventa una mammella a cui tutti sgomitano per attaccarsi e succhiare il più avidamente possibile.

Il sogno neanche tanto segreto dei publisher è di arrivare alla completa eliminazione dei supporti fisici: il passaggio definitivo al digital delivery, oltre ad annullare i costi di stampa e distribuzione, eliminerebbe del tutto il mercato dell’usato garantendo ai publisher il controllo totale sui propri giochi, pre- e soprattutto post-vendita. Paradossalmente unaa ‘digitalizzazione completa’ non riuscirebbe ad annullare la pirateria, ma questa sembra essere passata un po’ in secondo piano nelle agende delle aziende del settore: infatti eliminando la necessità di vendere tramite negozi, i guadagni verrebbero massimizzati portando nelle casse dei publisher anche la consistente fetta che viene trattenuta dai rivenditori, ben più concreta delle fantomatiche ‘mancate vendite’ citate da Persson; inoltre in questo modo gli stessi rivenditori verrebbero anche privati della facoltà di far ricircolare i giochi di seconda mano -la loro maggior fonte di guadagno in assoluto- segnando così un doppio colpo che annienterebbe le catene specializzate, vero obiettivo dell’operazione.

L’unico ostacolo a questo delitto perfetto siamo noi: i publisher infatti sanno bene che, benchè il digital delivery funzioni sempre meglio, difficilmente l’utenza accetterebbe di buon grado l’abolizione definitiva di scatole, dischi e manuali, che sono da sempre il primo ed importantissimo corrispettivo psicologico al consistente esborso che viene richiesto per ogni titolo e che -ricordiamoci bene- non corrisponde al possesso del gioco ma solo ad una licenza d’uso (come la famosa EULAEnd User License Agreement).

Visto che il problema siamo noi, proviamo ad immaginarci per che cosa varrebbe la pena di rinunciare ai nostri scaffali pieni di DVD e Blu-Ray. E la chiave per convincere i videogiocatori si potrebbe nascondere proprio tra le centinaia di righe di una licenza d’uso.

Se quella che acquistiamo è solo una licenza d’uso, questo significa che a conti fatti il nostro acquisto è virtuale: noi non compriamo il codice ma soltanto il diritto di usarlo, ed entro limiti piuttosto ristretti. Ma se quello che acquistiamo è sostanzialmente un servizio, non si capisce perchè questo diritto virtuale a poter fruire del servizio pagato debba essere limitato ad una piattaforma fisica e, di conseguenza, abbia una scadenza temporale legata alla vita commerciale della piattaforma stessa: se ad esempio ho già pagato per giocare A Link to the Past su Super Nintendo, perchè per poterlo giocare attraverso la Virtual Console del Wii devo pagare nuovamente la licenza?

Per non parlare poi di casi limite come i tre restyle della PSP (PSP, PSP Go! e Xperia Play), che pur basandosi sul medesimo hardware sono sostanzialmente incompatibili, con i dirigenti Sony che ammettono candidamente che chiunque vorrà continuare a giocare i propri giochi seguendo l’evoluzione della piattaforma dovrà pagarli nuovamente.

E allora ecco che, per convincere il popolo videogiocante a rinunciare ai supporti fisici bisognerebbe innanzitutto riconoscerne i diritti: comprare un gioco, pagarne la licenza d’uso,  dovrebbe dare accesso a tutte le versioni disponibili di quello stesso titolo così come alle riedizioni future, magari gravate da un parziale ricarico nel caso di remake HD o aggiornamenti di una certa consistenza, ma lasciando solo a chi non abbia ancora acquistato l’onere del prezzo intero.

E’ un’idea che ad un primo impatto sembra fantascientifica, e il fatto che per certi versi strizzi l’occhio tanto al cloud gaming di OnLive e Gaikai quanto al mito della console unica ed ai concetti alla base dello sfortunato progetto 3DO (con cui proprio Electronic Arts a suo tempo tentò di rivoluzionare il mercato delle console) non aiuta a vederla come una soluzione realmente praticabile, ma a ben guardare questa generazione ha già spostato una larghissima parte dei suoi contenuti sulla rete, e il successo di Steam e dei vari WiiShop, PSN e Live Arcade non fa che confermare che le infrastrutture ci sono, e che un cambiamento pur così radicale sarebbe tecnicamente possibile. Questo unito ad una politica dei prezzi più dinamica, che oltre ad un doveroso -ma niente affatto scontato– calo dovuto ai soldi risparmiati da stampa e distribuzione tenga in considerazione anche fattori come il tempo passato dall’uscita ed il numero di copie già distribuite, metterebbe infatti i giocatori nella condizione di trarne un vantaggio sufficiente da percepire la mancanza dei supporti fisici più come una liberazione dal giogo imposto dalle piattaforme hardware che non come una privazione.

Un’utopia? Forse, ma soltando sapendo che il titolo acquistato con i sudati risparmi sarà sempre e comunque a disposizione ogni volta che tornerà sul mercato, i videogiocatori potrebbero finalmente decidersi a rinunciare ai loro amati dischi argentati in favore di una concezione più ‘religiosa’ del videogame, nella quale il gioco c’è ma non si vede.

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La crisi del videogame su PC: la creatività ci salverà.

Considerati il fervore sollevato ed i numeri che Minecraft sta facendo prima ancora della sua uscita ufficiale, ed il successo di vendite che finalmente ha graziato MediaMolecule con LittleBIGPlanet 2, mi sembra il momento buono per riproporvi un pezzo scritto nel Settembre 2009 per BlogMagazine nr.6 che, in un certo qual modo, preannunciava la situazione attuale. Buona lettura!

inskindamus


Se l’attuale, settima generazione di console ha un merito, è quello di aver mischiato le carte in tavola.

Fra ritorni inattesi e clamorose débâcle la guerra, combattuta a forza di alta definizione, downloadable content, wi-fi, multiplayer online, motion sensing, bluray e quant’altro ha però trovato la sua vittima sacrificale e predestinata nel videogioco su PC, che sta attraversando una crisi profonda.

Le scarse vendite, nonostante il prezzo sensibilmente più basso delle versioni per personal computer, sono ormai all’ordine del giorno e col senno di poi è facile intravedere una certa ineluttabilità in questo calo. I problemi storici della piattaforma in questione sono diventati infatti dei macigni: la pirateria, forte di una diffusione ormai capillare dei software di condivisione e aiutata da maldestri sistemi di protezione dei prodotti originali, è florida come forse mai prima d’ora, mentre la corsa all’harware più aggiornato e performante ha ormai sfiancato anche il geek più integerrimo.

Il quadro è ancora peggiore se poi lo si confronta con l’altra metà del cielo, ovvero l’ambito console: la pirateria è al minimo storico grazie a supporti proprietari e controlli online efficaci e trasparenti, e la maggior redditività che ne consegue le ha fatte diventare l’hardware di riferimento per i giochi in sviluppo, rendendo i PC da gioco inutilmente sovrapotenziati per qualunque titolo multi-piattaforma. La situazione è ormai talmente compromessa che anche generi tipici del videogame su PC, come FPS e RTS, stanno traslocando sempre più velocemente e ormai c’è una vera e propria gara a chi rilascerà il primo MMORPG di successo su console, unica vera mossa in grado di impensierire Blizzard ed il dominio assoluto del suo World of Warcraft.

L’ultimo chiodo su questa bara mezza chiusa infine l’hanno piantato i negozi online, di cui ormai ogni console sul mercato si è fornita, nel dichiarato tentativo di penetrare quella nicchia di giochi piccoli e a basso prezzo per i quali fino a pochi anni fa il computer era l’unica alternativa possibile.

Fatto il punto sulle evidenti difficoltà in cui impreversa, non bisogna però commettere l’errore di dare il PC per spacciato. Il computer conserva infatti la sua unica e peculiare capacità di dare vita all’immaginazione di chiunque abbia a sua disposizione un’idea, una tastiera ed un mouse.
Innanzi tutto bisogna ricordare che a prescindere da tutto, il videogioco nasce sempre e comunque su personal computer, dove vengono programmati anche i titoli per console; una puntualizzazione forse scontata, ma che definisce un rapporto di discendenza e dipendenza univoco e impossibile da sciogliere, che pone due universi apparentemente in lotta su due piani in realtà molto differenti.

In secondo luogo, nonostante le seducenti possibilità di guadagno, il PC resterà la vetrina privilegiata della scena indipendente, per la sua incomparabile diffusione e per la semplicità con cui chiunque può non solo mostrare al mondo il proprio lavoro, magari anche in modo gratuito, ma anche condividere esperienze, problemi, soluzioni.

Infine bisogna considerare che le console, per loro stessa natura, si rivolgono tendenzialmente ad un pubblico “passivo”, privo cioè di quel guizzo che caratterizza invece una certa parte della utenza PC, che pur senza volersi addentrare nei meandri della programmazione, non disdegna di dare libero sfogo alla propria creatività modificando, espandendo, personalizzando e prolungando la vita dei giochi che acquista, come prova la sterminata schiera di mods e di comunità ad essi dedicate presenti in rete per praticamente ogni titolo in commercio.
L’evoluzione di quest’ultimo concetto è forse il risvolto più interessante dell’intera questione, in quanto ci concede uno sguardo su uno dei molti futuri possibili del videogame.

Fondando il gameplay sulla possibilità di creare e modificare, grazie all’implementazione di tools ed editor in-game, è nata infatti una nuova tipologia di giochi che dona all’utente un ruolo finalmente attivo e creativo, delegandogli nel contempo il compito di generare da sé il proprio divertimento.
Giochi come Crayon Physics Deluxe e Spore ci mostrano la portata di questa piccola rivoluzione, importante ed impegnativa perchè richiede di modificare pesantemente l’impostazione mentale tanto dei game designer quanto dei giocatori.

Impostazione che si è già rivelata molto più ardua da cambiare su console (vedi gli insuccessi dei pur ottimi LittleBIGPlanet e Banjo-Kazooie: Viti & Bulloni) e che vedrà nel pur scomodo e poco accogliente PC il suo alfiere, ancora una volta grazie alla sua capacità unica di assecondare la creatività a tutti i livelli.

[Scritto in origine per BlogMagazine.net ed in seguito ripubblicato su InsideTheGame.it]

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Il motion control ha fallito.

Il motion control ha fallito.

Non economicamente, ovvio: da quel punto di vista è stato uno dei successi più clamorosi della storia del videogioco, riuscendo a ribaltare le sorti di un mercato che sembrava ormai entrato in un circolo vizioso inarrestabile, creando un enorme bacino d’utenza completamente nuovo e riportando in cima al mondo un’azienda storica come la Nintendo, che in moltissimi ormai davano come fuori dal mercato delle home console.

E neanche tecnicamente: checchè se ne dica, le attuali periferiche per il motion control funzionano, e pure bene. Wii Motion Plus, Balance Board, Move e Kinect sono delle periferiche tecnologicamente eccezionali: potenti, efficienti, funzionali e a basso costo, portano nei nostri salotti un sogno che ha accompagnato il videogioco fin dai suoi esordi , e che nel tempo ci ha fatto spendere i nostri sudati risparmi per gli accessori più strani (come l’Atari Joyboard ricordataci da Mossgarden) tutti accomunati dal funzionare da poco e male.


Il tragicomico SEGA Activator..


Dove il motion control ha fallito è nella sua applicazione, nel gameplay.

O meglio, è il gameplay che ha fallito con il motion control.

Il reality check è piombato come un meteorite ormai inevitabile sulle teste di chi nonostante tutto ancora ci credeva proprio nel momento della definitiva consacrazione, ovvero al lancio di Move e Kinect: il fatto che, pur rispettando le promesse fatte in merito alle prestazioni, nè SonyMicrosoft non siano state in grado di trovare niente di meglio di scialbe imitazioni di Wii Sports per presentare le proprie periferiche, ha obbligato anche chi si rifiutava di vedere a riconoscere che dopo 5 anni il “controllo motorio” resta sostanzialmente costretto nell’ambito di multi-evento e party games.

Certo, si potrebbe sollevare il classico ‘squadra che vince non si cambia‘, e quindi se è vero che Wiimote+Wii Sports=$$$ era ovvio che ogni competitor, lanciata la sua periferica, avrebbe cercato di imitare anche la seconda parte dell’equazione, ma a 3-4 mesi dai rispettivi lanci una rapida occhiata alle liste di giochi disponibili per Kinect e Move lascia ancora a dir poco desolati.

Pur senza escludere che in alcuni casi si tratti di ottimi giochi (chiedete di Dance Central a Dollmasterz..) o di buone implementazioni “a posteriori” come Heavy Rain o Killzone 3, resta fortissima l’impressione che il problema non sia tanto nelle periferiche quanto negli sviluppatori: terrorizzati da un sistema produttivo che obbliga al risultato milionario e creativamente impoveriti da una domanda di titoli sempre uguali a se stessi, i game designer semplicemente non si sono dimostrati all’altezza delle aspettative, non riuscendo nè ad applicare efficacemente le periferiche di motion control all’hardcore gaming, nè a creare prodotti dedicati che fossero paragonabili per profondità e complessità (un minuto di silenzio per Milo & Kate, con tutta probabilità ucciso dalle paure di Microsoft).

Non che prendendo in considerazione anche Nintendo la situazione migliori gran che: come accennavo qualche tempo fa (“Gamecube – Wii: tradizione vs. innovazione“), la linea tenuta per il Wii è stata tanto coraggiosa e rivoluzionaria in principio quanto prudente e nostalgica una volta intravisti i soldoni che potevano essere fatti con la console, e lo stesso purtroppo è valso per il Wiimote, le cui caratteristiche uniche -al tempo- sono state malapena sfruttate nelle serie storiche, quando non ignorate deliberatamente. L’iniziale fiducia totale (dovuta alla situazione di partenza disperata) che ha portato Nintendo a imporre il motion control come caratteristica cardine della sua console è poi scemata pian piano, relegando il movimento ad un ruolo sempre più opzionale.

Se è vero che probabilmente non tutti i generi di gioco guadagnerebbero da un controllo motorio, e che in effetti anche da parte nostra c’è forse una certa impreparazione, è anche certo che si poteva e si doveva osare di più, molto di più, e senza osare il motion control non uscirà mai dalla sua nicchia, per quanto buone le periferiche possano essere.

E arriviamo finalmente al nocciolo della questione: se nè gli sviluppatori nè gli stessi produttori hardware si sono dimostrati in grado di trovare nuove soluzioni che giustifichino l’esistenza e scoprano le reali possibilità di questi nuovi sistemi di controllo, chi potrebbe farlo?

Ai più attenti non saranno sfuggite le fugaci dichiarazioni di Steve Ballmer, attuale CEO di Microsoft, e soprattutto l’intervento di John McCutchan di SCEA alla prossima GDC rispetto all’apertura delle rispettive periferiche al PC, così come alle succitate aziende non è sicuramente sfuggito il particolare momento di grazia in cui si trova l’ambito -sempre meno underground- dei giochi indipendenti.

L’impressione è quindi che Sony e Microsoft alzino le mani o quasi, confidando che tanti piccoli giocatori creativi riescano dove pochi, grandi sviluppatori hanno fallito, dando finalmente concretezza al motion control.

La speranza è che finalmente parta una gara a chi sfrutta meglio una periferica, la stessa gara in cui Nintendo sperava per la sua macchina ma che, essendosi essa stessa ritirata dalla competizione, si è persa fra migliaia di party games ed un forzato ritorno in voga del D-pad (e qui, pur con tutto l’amore che nutro per quel controller, caliamo un velo pietoso…); una gara dalla quale ovviamente non saranno esclusi neanche gli sviluppatori “ufficiali” più volenterosi, che perdono però quella sorta di diritto di prelazione garantito a chi ha il privilegio dell’accesso ai kit di sviluppo -e quindi all’hardware- di una console.

[youtube RCZ3_6awiTc]

D’altra parte la comunità ha già dimostrato di essere in grado di andare ben oltre quanto immaginato dai produttori hardware, partendo dalle imprese di Johnny Chung Lee con il Wiimote (peraltro poi assunto nel team che ha seguito il Kinect, a dimostrazione della diversa filosofia -giapponese e occidentale- rispetto alle idee ‘esterne’) per arrivare alle decine di hack del Kinect che escono ormai con cadenza regolare.

Affidare il videogioco ai videogiocatori è forse un rischio, ma è in linea con quel concetto di videogioco 2.0 che sta finalmente emergendo (Minecraft anyone?) e che rappresenta uno dei primi veri segni d’innovazione nel videogioco dall’avvento delle tre dimensioni, e forse è veramente l’unica mossa giusta rimasta da fare per riuscire finalmente a vedere che cosa sono veramente in grado di fare queste tanto decantate (in tutti i sensi.. ) periferiche di motion control.

Questo prima che finiscano anch’esse in quel limbo buio e umido dove riposano tutte le altre promesse tradite del videogame: la cantina.

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